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Sitar
La più popolare teoria che l'inventore del sitar sia stato Amir Khusrao, a cui attribuiscono numerose altre creazioni (dallo stile quvali alle tarana ecc.), appare oggi un "prolugnato" errore di confusione di nomi, poichè il probabile inventore - o meglio iniziatore - è invece Khusro Khan intorno al 1700. Per certo la prima citazione del sitar (con questo nome) è del 1739, in un piccolo trattato, "Muraqqa i Delhi", dove viene presentato appunto come "il nuovo strumento a tre corde".
Nelle sculture dei più antichi templi indiani erano già presenti liuti a manico lungo progenitori del sitar, detti allora tritantri vina, dove "tantri" sta per "corde" e "tri" è tre in sanscrito; anche "setar" in persiano significa "a tre corde", come pure il termine sitar che infatti deriva da quest'ultimo, poichè la nascita e lo sviluppo del sitar è avvenuta proprio nel lungo periodo di invasioni islamiche nell'India del nord. Anche i nomi delle varie parti dello strumento sono per lo più in lingua persiana: tar, mizrab, parda...
Amir Khusrao, grande musicista e poeta (diretto discendente di Tansen) alla corte del sovrano Alauddin Khiliki (XIII secolo) in Delhi, non ha mai citato il sitar nei suoi pochi iscritti in persiano e già questo è indicativo, visto che cita molti altri strumenti come il setar, tambur, dhol, ecc.
Proprio il tambur è stato probabilmente lo strumento da ponte tra i liuti importati dal mondo arabo e il nuovo strumento: il sitar.
Già nel XVII secolo venivano citati nel Sangita Prijata, fra i liuti a manico lungo, due tipi di tamburam (il nome già era stato "indianizzato"): uno di essi era detto Anibaddha Tamburam (fisso e senza tasti, l'antenato del tambura o tanpura), l'altro - detto Nibaddha Tamburam - era “mobile” con i tasti per le note; dalle descrizioni e coincidenze storiche sembra essere proprio quest'ultimo tipo di Tumbur l'antenato del sitar.
Il setar invece è uno strumento persiano antico importato in India e usato in varie corti fino al XVII-XVIII secolo, ma - pur avendo in comune coi primi sitar le tre corde - non aveva alcuna della caratteristiche degli attuali sitar: né dimensioni, né ponticelli e tasti che permettessero la flessione delle corde, “specialità” e “unicità” di questo meraviglioso strumento.
L'inizio del 1700 sembra sia stato il momento in cui siano avvenuti, gradualmente, gli importanti cambiamenti, sulla base di uno strumento che prendeva ispirazione nel nome dal setar, nel formato dal tunbur, nella concezione dall’antica vina. Questa infatti era l'unico strumento al mondo coi tasti, che si poteva suonare, già prima del sitar, sia in orizzontale (sui tasti) che in verticale (cioè flettendo le corde).
Il periodo storico coincide con quello di Khusro Khan (confuso con Amir Khusrao), altro musicista e personaggio importante, citato all'inizio del XVIII secolo da varie fonti come suonatore di un “nuovo strumento a tre corde”, che però ancora aveva il manico stretto, (e dunque non consentiva la flessione delle corde); deduciamo che il fondamentale cambiamento dovuto all'allargamento del manico è stato graduale e non collegato ad una singola persona. E proprio questa modifica, unita all'uso di un largo ponticello in osso (non più gli stretti ponticelli in legno dei precedenti tumbur e setar) ha determinato il più consistente cambiamento, nonchè l' “indianizzazione” dello strumento che, pur mantenendo la forma dei lunghi liuti di origine persiana, sempre più prendeva ispirazione dalla antica vina.
In questo senso vanno viste modifiche come l'ampliamento della cassa armonica (ormai in zucca e non più in legno) e l'aggiunta dei cikari (anch'essi già presenti nella vina, ma non nel setar).
Lentamente il sitar assumeva una fisionomia propria, che lo differenziava sempre più sia dagli antenati di origine persiana che dalla vina indiana. I tasti, che nella vina erano dritti e fissi, diventarono invece curvi (per agevolare la flessione) e mobili (per permettere l'intonazione precisa con i microtoni giusti).
Gli altri cambiamenti successivi (1800-1900) che hanno ulteriormente trasformato il sitar sono stati: 1) l'uso del mizrab che ha determinato la nascita di uno stile originale proprio; 2) l'aggiunta dei tarab - le corde simpatetiche - che ormai è una peculiarità dello strumento, arricchitosi di risonanze e suoni armonici unici.
Tutti questi cambiamenti hanno preso un paio di secoli, benchè li abbia iniziati Khusro Khan, quindi non dovrebbero essere attribuiti ad una singola mente geniale.
Attualmente sono rimasti in India due modelli di sitar: nel primo si è mantenuta una cassa armonica leggermente più piccola e solo sei corde (oltre i tarab), avvicinandosi -idealmente - di più ai progenitori persiani; nel secondo invece - ispirandosi alla vina - è stato addirittura aggiunto un secondo risonatore in alto e vi sono sette corde, con una ottava bassa in più fornita da due corde.
Si potrebbe concludere ricordando che le sole tre corde usate nei primi sitar erano: Ma Sa Sa, coi due Sa sulla stessa frequenza-ottava; questi infatti erano chiamati “jori”, cioè in coppia. Ora ne è rimasto uno solo, ma che viene ugualmente chiamato “jori tar” come in passato.
A queste tre corde furono in seguito aggiunti i cikari (Pa, Sa, Sa) e solo nello scorso secolo il secondo “jori” è stato sostituito con il Ga, da Inayat Khan padre del più popolare Vilayat Khan. Quest'ultimo è stato il sitarista più vanamente “copiato” ed imitato del XX secolo, oltre all'altra pietra miliare il Pandit Ravi Shankar, che ha dato un enorme contributo alla conoscenza del sitar in tutto il mondo e che ho avuto l'onore di accompagnare - come suonatore di tanpura - nel suo ultimo tour di concerti in Italia... dopo, solo sue sporadiche apparizioni con la figlia a fare da “spalla”.
Alcuni musicisti hanno poi preferito una via intermedia, usando solo una delle 2 corde basse del secondo tipo di sitar, con sette corde compreso il Ga e senza il Sa basso. Si può generalizzare dicendo che i sitar a sei corde sono di ispirazione islamica e preferiti dai musicisti musulmani, quelli a sette corde sono più collegati alla vina, perciò preferiti dai musicisti di origine indu.
Ma come al solito le eccezioni non mancano e ulteriori modifiche sono in divenire sul sitar: la mancanza di materia prima (corno di cervo) sta facendo realizzare ponticelli in legno o peggio in vetro resina; la necessità di viaggiare sta facendo inventare modelli più stretti e trasportabili … ma meno belli. Ho apportato anch'io un paio di piccole modifiche al mio strumento, alla ricerca di un suono individuale che rappresenti me stesso.
Tratto dal mio libro 108 Raga Mala. Benares e la musica classica del Nord India. Ed. Artemide - 2015
Vicitra Vina
Vina è il termine generico con cui venivano indicati tutti gli strumenti a corda circa 2000 anni fa.
Delle 3 Vina citate nell'antico trattato "Natyashastra", una era a corde libere (tipo arpa), un'altra era tastata e permetteva la flessione delle corde, l'altra ancora era non tastata e veniva suonata con un bastoncino di bambù liscio per produrre le note. Aveva 7 corde ed era chiamata "Citravina".
Quest'ultimo è il nome alternativo delle attuali Vina non tastate: La "Gottovadyam Vina" (del sud) e la "Vicitra Vina" (del nord).
Il termine Vicitra si può tradurre con "strano", "sorprendente", "meraviglioso".
Nel corso dei secoli si sono perse le tracce della Vina non tastata, (che appare nelle sculture dei templi indiani più antichi) fino a quando alla fine del 1800 essa è stata rivitalizzata e resa di nuovo popolare da Ustad Abdul Aziz Khan, suonatore di Saranghi alla corte di Patiala. Già pur essendo un bravo musicista, per suonare lo strumento in uno stile profondo come il Dhrupad egli studiò per un lungo periodo con il maestro di Rudra Vina Ustad Jamaluddin Khan.
Rispetto all'antico strumento non tastato, la Vicitra Vina era di dimensioni più grandi sia nel manico che nei risuonatori costruiti con due grandi zucche; inoltre erano state aggiunte 13/15 corde simpatetiche.
Attualmente lo strumento viene suonato con un supporto di vetro o pietra liscia a forma di uovo che scivola sulle corde per produrre le note avvicinandosi al suono di una voce umana.
Nella mano destra vengono usate tutte le dita, ma solo nell'indice e nel medio si infila l'anello metallico chiamato mizrab per pizzicare le corde, mentre anulare e pollice possono toccare quelle più basse per ottenere un suono più morbido. Il mignolo pizzica con l'unghia le corde di accompagnamento dette cikari. In totale vi sono 9/10 corde sul ponte superiore delle quali 4 sono per la melodia e coprono fino a 4 ottave.
Lo strumento viene decorato con il pavone ed il cigno che sono simboli collegati alla dea Saraswati, ispiratrice e protettrice dei musicisti e degli artisti.
Surbahār
Dall'etimologia della parola "sur-bahār" si può tradurre come "note di primavera".
Il Surbahār è nato intorno al 1800 e vi sono due versioni sulla sua invenzione: alcuni la attribuiscono al sitarista Ustad Ghulam Muhammad; altri a Ustad Sahbdad Khan, antenato del famoso sitarista e suonatore di Surbahār Imrat Khan (fratello del legendario Ustad Vilayat Khan). Fu proprio suo nonno Ustad Imdad Khan a rendere popolare il Surbahār.
Lo strumento si presenta come un grande Sitar dalle casse armoniche piatte (di zucca) come l'antica Kacchva Vina o il Kacchu Sitar.
Ha toni bassi e profondi ed il manico largo permette una enorme flessione delle corde che consente di raggiungere, nella prima corda, fino ad un'ottava in ogni tasto.
Vi sono 7 o 8 corde sul ponticello superiore, delle quali 4 per la melodia (che coprono più di 4 ottave). Le altre di accompagnamento dette cikari come nel Sitar. Inoltre nel ponticello inferiore vi sono da 9 a 13 corde di risonanza o simpatetiche, dette taraf.
Tradizionalmente era suonato con due mizrab nell'indice e nel medio della mano destra. Si usavano tutte le dita proprio come nella Vina. Infatti il mignolo suonava i cikari e l'anulare (senza mizrab) suonava le corde basse.
Attualmente molti sitaristi suonano il Surbahār con un solo mizrab nel dito indice, ispirandosi a techiche e stile del Sitar piuttosto che quelle della Vina.
La decorazione alla sommità del manico rappresenta il makar, animale mitologico che unisce serpente e drago, a lasciare intendere il carattere profondo e basso del suo suono.